Donald Trump, l'impatto sulla siderurgia
La notizia è fresca, Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti d'America. Viene spontaneo pensare a quali potrebbero essere le ripercussioni per il settore dell'acciaio americano, e di riflesso mondiale.
Il tema ha fatto già parte della campagna presidenziale, con il candidato repubblicano che a gran voce reclamava la necessità di fermare l'invasione di acciaio cinese sottocosto, per riportare l'industria americana a marciare come un tempo, e la sfidante democratica che gli rispondeva, citando un'inchiesta di Newsweek, che in almeno due su tre dei suoi ultimi progetti di costruzione Trump si è avvalso di acciaio e alluminio cinese piuttosto che di imprese con sede in Pennsylvania, Ohio, Michigan o Wisconsin.
La richiesta di protezionismo è forte, da parte dell'industria manifatturiera americana. L'Alliance for American Manufacturing spinge da tempo per l'ottenimento di misure a protezione delle imprese siderurgiche made in USA, adducendo come motivazione che più di 19.000 americani hanno subito licenziamenti e decine di fabbriche hanno chiuso perché “la Cina non gioca secondo le regole” e produce molto più di quanto abbia realmente bisogno.
Misure antidumping sono già state prese, in tempi recenti, ma con sviluppi inaspettati. È di pochi giorni fa la notizia che il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti procederà con le indagini sui produttori di acciaio cinesi accusati di eludere i dazi, esportando l'acciaio in Vietnam per la lavorazione ed il successivo export negli Stati Uniti. Come cita l'American Iron and Steel Institute, il tutto parte da un reclamo di quattro dei principali produttori di acciaio statunitensi - ArcelorMittal USA, Nucor Corporation, AK Steel Corporation e United States Steel Corporation, i quali notano come a seguito dell'imposizione dei dazi sull'acciaio cinese (resistente alla corrosione e laminato a freddo), le importazioni dalla Cina sono sì diminuite drasticamente, ma quelle dal Vietnam hanno avuto un'impennata, segno che i prodotti venivano trasportati nel paese confinante per operazioni di finitura minori – e in effetti riciclati come vietnamiti.
Molti temono una possibile stagnazione della crescita americana a seguito della politica di protezionismo annunciata da Trump. Gli analisti di Market Realist, in un articolo apparso qualche giorno fa, fanno alcune considerazioni interessanti. Primo: anche se Trump insistesse su una presa di posizione dura contro l'acciaio cinese, alla lunga l'effetto non sarebbe comunque positivo sui produttori USA. L'impatto negativo sull'industria cinese ci sarebbe, ma sarebbe una manovra dal respiro corto, perché i produttori cinesi abbasserebbero i prezzi su scala internazionale per il contraccolpo sul mercato interno, e ciò finirebbe per influenzare anche il mercato USA. In fondo, Trump non può fermare le importazioni da tutti i Paesi della Terra e, come si è visto, le scappatoie ci sono.
Trump ha promesso di spendere più di 500 miliardi di dollari per le infrastrutture. La domanda di prodotti siderurgici, stagnante nell'ultimo periodo (meno 5% anno su anno le spedizioni nel mese di settembre, meno 10% rispetto ad agosto, dati American Iron and Steel Institute) potrebbe risalire per i maggiori investimenti in ponti, autostrade, aeroporti. Conditio sine qua non però è che il Congresso approvi la destinazione di notevoli somme al settore, e una politica di rialzo del deficit.
Non rientra nel discorso, comunque, il muro con il Messico, una “grande opera” che se anche fosse realizzata non avrebbe altrettanto grandi ripercussioni sull'industria nordamericana. Donald dice che la pagheranno i messicani, difficile che scelgano fornitori a stelle e strisce.
DDM
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