La ripresa: la Germania corre
La ripresa: la Germania corre di Alessandro Alviani
Boom dell'export, disoccupazione bassa, Pil in crescita. E' ripartita la locomotiva d'Europa: il modello tedesco torna a fare scuola.
BERLINO - Nel dicembre del 2008 il porto di Bremerhaven cambiò all’improvviso funzione: da più grande terminal europeo per il carico e lo scarico delle automobili a più grande parcheggio sulle coste del Mare del Nord. Oltre 90.000 tra cabrio, utilitarie e Suv attendevano pazienti di raggiungere i loro nuovi, ancora inesistenti proprietari in giro per il mondo. Un desolato oceano di portiere, finestrini e bagagliai che da queste parti non si era mai visto. A Bremerhaven l'industria automobilistica, uno dei centri nevralgici dell'economia tedesca, si era fermata nel vero senso della parola. E con essa aveva smesso di correre anche la locomotiva di Eurolandia.
Oggi Brema e Bremerhaven sono in pieno boom: nei primi sei mesi dell'anno il trasbordo merci è cresciuto a ritmi addirittura maggiori di quelli registrati nel più grande porto tedesco, quello di Amburgo. Un simbolo anche questo, ma di segno opposto: la competizione tra Audi, Bmw e Mercedes, del resto, non si gioca più su chi riesce a contenere meglio le perdite, bensì su chi riesce a esportare di più sui mercati statunitense e cinese. «Entro il 2015 in Cina le nostre vendite nel settore premium cresceranno del 67%» annunciava euforico qualche giorno fa sull'Handelsblatt il responsabile vendite di Audi, Peter Schwarzenbauer. Un'euforia che ha contagiato da tempo anche i piani alti della politica tedesca: quella in corso è una «crescita in formato XL», ha gioito il ministro dell'Economia, il liberale Rainer Brüderle. Gli esperti della DekaBank si sono spinti addirittura a preannunciare un «decennio tedesco».
Nella più grande economia dell'Eurozona i toni della discussione sembrano oscillare tra due estremi al variare dei cicli congiunturali: si fanno apocalittici, non appena la curva della crescita inizia a puntare verso il basso, diventano invece trionfali, non appena l'economia si rimette in moto. In piena crisi, ad esempio, l'ex capo economista di Deutsche Bank, Norbert Walter, pronosticò un'esplosione del numero dei disoccupati fino a cinque milioni, una soglia psicologica nefasta per la Germania. Oggi che il Pil è arrivato a crescere nel secondo trimestre del 2,2% rispetto al primo trimestre il ministro Brüderle ritiene possibile centrare la piena occupazione. Cos'è successo nel frattempo? È successo che le aziende tedesche, a differenza di quanto avvenuto nelle crisi precedenti, piuttosto che licenziare hanno preferito tenersi stretti i lavoratori più esperti, ricorrendo allo strumento della settimana corta, potenziato dall'ex governo di Grande Coalizione. È così che oggi, al posto dello spettro della disoccupazione di massa, la Germania parla di un possibile “Jobwunder” (“miracolo dei posti di lavoro”): entro fine anno il numero dei senza lavoro potrebbe scendere sotto i tre milioni e le piccole e medie aziende potrebbero creare fino a 100.000 nuovi posti. È successo che la famigerata “german angst” ha colpito molti meno tedeschi del temuto: i consumi, tradizionalmente un tallone d'Achille per l'economia federale, sono tornati a crescere nel secondo trimestre, anche se a ritmi limitati, e gli indici sulla fiducia dei consumatori fanno sperare in un'evoluzione positiva anche nelle prossime settimane. È successo che la Cina ha inondato l'industria automobilistica tedesca e quella dei macchinari di nuovi ordini. Ed è successo che i sindacati hanno preferito la moderazione salariale al muro contro muro. È proprio qui, però, che si nascondono i problemi. Ig Metall ha chiesto per i dipendenti dell'industria dell'acciaio incrementi salariali del 6% e anche diversi economisti, a cominciare dal presidente dell'istituto Diw di Berlino Klaus Zimmermann, hanno proposto incrementi in busta paga di almeno il 3%. «Non è possibile che i lavoratori paghino più volte per la crisi», dopo la politica salariale moderata degli anni scorsi «adesso è arrivato il nostro turno», ha tuonato sull'Hamburger Abendblatt di oggi il capo della confederazione sindacale Dgb, Michael Sommer.
Lo stesso boom dell'export verso la Cina genera i primi interrogativi. «I rivali. Cina contro Germania: lotta per i mercati mondiali», titolava la scorsa settimana lo Spiegel, soffermandosi allarmato sulla crescente dipendenza della Repubblica federale da Pechino (nei primi sei mesi del 2010 le esportazioni tedesche verso la Cina sono cresciute su base annua del 56%). E poi ci sono le incognite sulla ripresa degli Usa, ma anche, sul piano interno, le difficoltà di un governo federale che non riesce ad approfittare delle buone notizie in arrivo dall'economia. È anche per questo che il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, alle prese con la necessità di risparmiare per rientrare nei parametri di Maastricht e per rispettare il nuovo tetto anti-deficit inserito nella Costituzione tedesca, mette già le mani avanti: non bisogna sopravvalutare gli annunci positivi, l'anno prossimo i tassi di crescita saranno inferiori a quelli attuali, va ripetendo da giorni. I portuali di Bremerhaven sono già avvertiti.
