Osservatorio materie prime
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T-Commodity Weekly Digest
Edizione n. 18 – 18 luglio 2011 In queste ultime settimane il focus degli operatori è apparso molto concentrato sui possibili rischi default di Italia e Usa. Emblematica è stata la telefonata ricevuta da un mio cliente venerdì scorso: “lunedì prossimo vado in ferie per 2 settimane. Al mio ritorno è possibile che 2 paesi del gruppo del G7 siano andati in default”. Conoscendolo, sapevo che quella frase era stata detta a mo’ di provocazione. E però conferma quanto sentite siano oggi sui mercati le questioni del debito di Roma e Washington. Effettuando un’analisi più attenta si evincono tuttavia le profonde differenze tra i due paesi. Se infatti il potenziale rischio default per l’Italia è di carattere strutturale, in quanto frutto della combinazione esplosiva alto debito pubblico-bassa crescita del pil, nel caso degli Usa è il braccio di ferro politico tra Repubblicani e Democratici che impedisce di alzare il tetto del debito pubblico oltre i 14 mila miliardi di dollari rischiando un default tecnico. Anche il mercato finanziario la pensa così come è ben visibile dall’andamento dei rendimenti dei titoli decennali dei due paesi. (vedi grafico in dettagli). I titoli di stato italiani hanno visto i rendimenti toccare i massimi dall’introduzione dell’euro nel 1999, mentre i rendimenti sui titoli di stato americani hanno registrato un marcata diminuzione, toccando il livello più basso dell’anno nonostante a fine giugno sia scaduto il secondo round di stimolo monetario varato dalla Fed lo scorso mese di novembre. Lo stesso venerdì scorso i prezzi dei Treasury statunitensi hanno chiuso la seduta di trading in rialzo malgrado nelle precedenti 48 ore Moody’s e Standard & Poor’s avessero minacciato di ridurre il rating sul debito americano in caso di mancato accordo sull’innalzamento del cap.
Quali sono i motivi di questa dinamica apparentemente contraddittoria? In primo luogo a spingere al rialzo i titoli di stato Usa è giunta l’ultima tornata dai dati economici non propriamente positiva. In particolare l’indice sulla fiducia dei consumatori nel mese di giugno ha raggiunto il livello minimo dal marzo 2009. In secondo luogo ha inciso, così come continua a farlo, anche la convinzione da parte dei trader che alla fine un accordo seppur temporaneo verrà raggiunto. Uno scenario, questo, in forte contrasto con quello non solo italiano ma europeo la cui questione del debito sovrano dei paesi PIIGS è di carattere strutturale e ben lontana dall’essere risolta, come sta dimostrando in queste ore il nuovo scontro Bce-Germania sul coinvolgimento dei privati nel piano di ristrutturazione del debito greco (Francoforte non lo vuole per evitare il default, Berlino invece sì e parla di default selettivo).
La luna di miele tra investitori e mercato di titoli di stato Usa è dunque destinata a durare all’infinito? Francamente non mi stupirei affatto se l’eventuale default tecnico potesse essere sfruttato dagli investitori come pretesto per dare il via a un sell-off sui titoli di stato Usa. Perché se è certamente vero che “al momento non ci sono alternative agli Usa e che quindi non escludo che davanti a un default i prezzi dei Treasury schizzeranno al rialzo”, come mi ha detto il gestore di un hedge fund londinese la scorsa settimana, ritengo che nell’attuale fase di mercato gli investitori siano invece generalmente alla ricerca di un pretesto per fare profitto. Le vendite, produrrebbero un’impennata dei rendimenti che diminuirebbe fortemente l’appeal sulle commodities. Naturalmente uno scenario del genere stravolgerebbe lo scenario di politica monetaria, rendendo in quel caso molto concreto un terzo stimolo monetario da parte della Fed. Gianclaudio Torlizzi
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